Drudkh – “Blood In Our Wells” (2006)

Artist: Drudkh
Title: Blood In Our Wells
Label: Supernal Records
Year: 2006
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “Nav’ (Intro)”
2. “Furrows Of Gods”
3. “When The Flame Turns To Ashes”
4. “Solitude”
5. “Eternity”
6. “Ukrainian Insurgent Army”

“Miei pensieri,
miei malinconici pensieri,
miei bambini, teneri germogli!

Vi ho nutrito, vi ho cresciuto…
e ora cosa devo fare con voi?

Andate in Ucraina,
miei trovatelli senza tetto!

Fate la vostra strada di ritorno,
verso l’Ucraina,
come vagabondi,
ma io son destinato a rimanere qui.”

Da sempre le poesie dell’ottocentesco letterato connazionale Taras Shevchenko, figlio di servi e dunque nell’Ucraina rurale del suo tempo servo a sua volta, poi pastore per necessità e miseria, costituiscono uno dei più modesti ma fortissimi pilastri lirici e d’ispirazione spirituale dei Drudkh. Proprio le loro parole hanno sempre donato, qualora vi fosse una reale o possibile traduzione esprimibile in musica, quell’esatto senso di resistente malinconia, di umile nobiltà in forma testuale che ben si addice e si mescola al sapore di sincera tristezza provvista di un temperamento ardito invece cuore battente e musicale di un gruppo che, a quel punto rodato nel solido trio composto da Saenko e Thurios accompagnati da un Amorth ormai a suo agio anche nei panni di batterista oltre che tastierista, nel marzo del 2006 si appresta a rilasciare il suo quarto full-length. Tramite esso, anche a rifinire ed espandere ogni elemento della sua proposta già fortemente peculiarizzata negli istinti pagani di “Autumn Aurora”, inasprita e perfino allargata in “The Swan Road”, trovandovi al contempo un naturale valore folkloristico che fino a quel momento risulta semplicemente inedito; quantomeno, nuovo con una tale insistenza che parte proprio dai germi disseminati nella premonitrice “Fate” e soprattutto da quelli gentilmente prestati dall’Onorato Cavaliere della Cultura Ucraina, Ihor Rachok, per il commiato “Song Of Sich Destruction” (originariamente, nella versione del cantautore popolare oggi ottantaquattrenne, “About [The] Extermination Of Sich”) dal precedente disco.

Il logo della band

Il tutt’uno è dunque più che mai in grado di trasportare visualmente gli ascoltatori in altri luoghi e in altre epoche, come se fossero dei cosacchi persi in mezzo alla steppa nord-est europea. Proprio attorno al cuore della dolorosa e riportata poesia “I Miei Pensieri” dello scrittore riscattato dalla povertà e soprattutto finalmente libero (Shevchenko è il primo autore in patria a problematizzare tramite le sue opere l’identità e la libertà della sua stessa Ucraina, con tanta ribelle audacia da soffrire per volere dello Zar russo una decade intera di prigionia tra il 1847 ed il ‘57), è costruita la quarta traccia intitolata “Solitude”: il muscolo centrale e pulsante, la papabile punta di diamante qualitativa e persino la chiave di apertura alla lettura dell’intero “Blood In Our Wells”, ancora fuori per la britannica Supernal Music (a metà decennio già casa dei primi quattro lavori dei parenti Hate Forest, già scioltisi, dei The Meads Of Asphodel del debutto “The Excommunication Of Christ” nonché del punto massimo degli Astrofaes dello stesso Roman Blagih nel 2005 con “…Those Whose Past Is Immortal”). Nel quarto figlio di una band distante di quasi un lustro rispetto all’inizio dell’affrancazione commerciale che li avrebbe portati oltre gli amati confini nazionali, che li avrebbe promossi sugli scaffali dei negozi di dischi del globo intero oltre che proporli tra i più apprezzati autori nello stampo Atmospheric Black Metal dei tempi recenti, grazie alle cure di Season Of Mist Records, sono infatti l’afflato poetico nazional-romantico di Shevchenko, nonché del dramma dei ben più tardi e moderni letterati Oleksandr Oles e della professoressa onoraria Lina Kostenko, a mescolarsi al folklore dei tatari di Crimea nella trasposizione sofferta di un film come “Mamay” -ironicamente proprio uno d’amore, d’identità ambivalente e di differenze quanto di somiglianze- che questa volta presta ai musicisti la materia per i campionamenti degli strumenti acustici e della musica Folk locale per rendere l’operato incluso in “Blood In Our Wells”, indubbiamente, un episodio ad oggi irripetuto nella discografia dei Drudkh.

“Last Journey” di Vasily Perov (1865)

Così l’incedere comunque molto atmosferico, seppure già allontanatosi dal concentrico caposaldo “Forgotten Legends”, si fa mistico per una minore dose di reiterazione spiccia rispetto al passato, divenendo ancestrale ben oltre le sonorità ed il taglio solitamente riconosciuto alla band, in una serie di cinque brani in cui la sono la lunghezza ritrovata -specialmente quella delle tre tracce centrali, se si considerano i timing più ristretti dei due precedenti album- ed esercitata in maniera differente come la costruita ripetitività generale, innervata di cambiamenti microtonali, a segnarne il mastodontico carattere; la venerazione stagionale quadripartita dei primi tre passi della band si trasmuta qui invernale, quasi come fosse una difficile camminata in mezzo ad una bufera di neve ipotizzata tramite l’apertura degli accordi (si pensi all’evoluzione da metà di “Furrow Of Gods”, come nella conclusiva e quasi strumentale “Ukrainian Insurgent Army”). Ed è proprio questo il punto di forza, se vogliamo il motivo di maggior splendore della musica dei Drudkh in generale, quando al loro picco creativo: quel continuo alternarsi fra lutto, un’agonia qui fortissima (“When The Flame Turns To Ashes” ed “Eternity” che, apertura esclusa in quanto più vicina agli stilemi solari di un “Autumn Aurora” e della sua “Sunwheel”, capta l’attenzione come forse l’episodio più evoluto ma cupo del platter insieme, va da sé, proprio a “Solitude”), un misticismo rurale per la prima volta quasi ascrivibile ai canoni della World Music (nell’incipit “Nav’”, ad esempio, per suggestioni a metà tra ciò che saranno i russi Arkona da “Yav” in poi e i Dead Can Dance di “Spiritchaser” ed “Into The Labyrinth”) che affonda le sue radici in credenze preistoriche, nel richiamo al naturale come contraltare a quel senso oppressivo ed attanagliante di solitudine esistenziale, di malinconia e dolore che generano ipnosi ed assuefazione in un continuo gioco di forti luci (gli assoli inaspettati e curatissimi del primo brano come quelli all’inizio del secondo e del terzo) ed ombre sporadicamente perforate dai brevi, cruciali inserti di musica Folk tradizionale ucraina, dalla balalaica e lo zither balcanico che aprono “Solitude” alle cornamuse slave della successiva “Eternity”. Un’attenzione piena di sentimento che non solo ammanta di bucolico patriottismo l’album, ma che al tempo stesso sottolinea la durezza e le semplicità, le difficoltà nere insite nella vita di campagna in tempi antichi ed innegabilmente più difficili, dando al lavoro una grande profondità storica ed etnoculturale.

Per molti fan del gruppo “Blood In Our Wells” (celebremente dedicato alla figura controversa e dibattuta, altamente divisiva in patria, del nazionalista Stepan Bandera – nel 2010, senza misteri per soli scopi politici e prima dell’annullamento un anno dopo, insignito da Viktor Yushchenko del discusso titolo di Eroe d’Ucraina) rappresenta non soltanto una delle sue ultime prove realmente valide e concrete, ma anche uno dei suoi apici qualitativi, il quarto ed ultimo capitolo di una quadrilogia iniziale pressoché perfetta e probabilmente impossibile da ripetere; quello della bandiera gialla e blu consumata ma non dimenticata, il più patriottico e per questo problematico e superficialmente incompreso mai partorito dai Drudkh, un precedente (se si esclude quel “Weltanschauung” dei Nokturnal Mortum del 2005, già pubblicato in Ucraina nel 2004 nella sua versione originaria “Мировоззрение”) per esplicita schiettezza d’intenti, non solo per la dedica, perfino in una regione in cui è difficile trovarsi ad essere, culturalmente, artisti apolitici. Originariamente graziato dallo splendido dipinto del romantico Vasily Perov, il primo ed ultimo viaggio su queste rotte della band prima del grezzo passo indietro in “Estrangement”, quello che li porterà in linea diretta ad esplorare ancor più a fondo ed esclusivamente la loro anima Folk e squisitamente acustica nel commovente ed estemporaneo punto di non ritorno “Songs Of Grief And Solitude” (pubblicato non a caso nel giro dello stesso anno, di lì ad ottobre, a dimostrazione di un eclettismo di gruppo che si sarebbe rivelato nel 2007 anche in “De Occulta Philosophia” degli stessi membri debuttanti nei Blood Of Kingu), assume il carattere ferventemente profetico, di pura bellezza malinconica giusto appunto di uno degli altri scritti dello Shevchenko che abita il suo intimo…

“E di tenebra muta anche il cuore ti fascia. Non sai più dove stare.
Aspetti che ritorni la luce, come i bambini aspettano la madre…”

Karl “Feanor” Bothvar

Precedente Impaled Nazarene - "Pro Patria Finlandia" (2006) Successivo Vreid - "Pitch Black Brigade" (2006)